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Jimmy Eat World - Bleed American
14/12/2024
( 190 letture )
Posso dirvi una cosa? Sarà una considerazione figlia di un preconcetto estetico ma quando ho scoperto i Jimmy Eat World non li accostati mai minimamente alla scena emo. Loro sono sempre stati molto sobri da quel punto di vista e, fondamentalmente, quello che fanno è pop-punk. Buono tutto sommato, molto pop, poco punk. Piuttosto un power-pop con influenze indie e spruzzate di punk-rock con poca pretesa di profondità. Tuttavia, i 4 dell’Arizona nel 2000 erano perfettamente inseriti nella scena locale, seppur scaricati dalla Capitol Records dopo le scarse vendite dei primi 3 dischi e con un budget tale da non potersi neanche permettere di pagare nell’immediato lo stipendio al produttore Mark Trombino che, per amicizia e per una propria convinzione sul successo commerciale di un disco che aveva le evidenti carte in regola per scalare le classifiche, accetta di lavorare gratuitamente per loro. The Middle, infatti, è una hit indiscutibile finita in piena rotazione nelle radio mondiali e tra i video su MTV e nel complesso, il loro quarto album, diventa disco di platino e li catapulta nelle classifiche internazionali. Pubblicato il 24 luglio 2001 via DreamWorks Records, Bleed American è molto più leggero e sommesso di quanto si potrebbe pensare, ma è un lavoro ampiamente sufficiente. Non riesce e, forse, non vuole soddisfare le pretese delle anime più rock, ma incontrare più volentieri i gusti di ascoltatori dell’area mainstream. Dopo gli eventi dell’11 settembre pare che la band abbia tentato di far cambiare il nome del disco omonimo in omaggio a quegli eventi ma, in seguito, per decisione della label, il titolo ritornò quello originario. Il suo predecessore, Clarity, è forse superiore per creatività e spensieratezza ma privo di canzoni trainanti e d’impatto immediato; a parte Lucky Denver Mint il resto risultava più spontaneo, ricercato, quasi alternative, ma più acerbo e meno accessibile. Qui la band sembra trovare la sua identità definitiva e affronta, invece, il tentativo di rendere le proprie intenzioni più semplici di quanto le sarebbe venuto spontaneo fare ed è una scelta che li ha ripagati, soprattutto grazie a The Middle con cui hanno fatto letteralmente centro; ma veniamo al disco.

Il brano d’apertura, che dà il nome all’album, è senza ombra di dubbio il più carico e riuscito nonché uno dei migliori mai scritti dalla band. Segue A Praise Chorus in cui si mantiene il mood, con il difetto di perdere d’intensità verso metà canzone, nonostante a supporto delle voci vi sia la presenza di Davey Von Bohlen, cantante e chitarrista dei The Promise Ring, amici e compagni di tour.
Your House inizia e prosegue incessante con una schitarrata acustica che acquisisce fin da subito un carattere giocoso e leggero grazie al cantato del frontman Jim Adkins assistito da una ritmica sincopata e un basso vivace; si mostra fresca ed imprevedibile tanto da lasciare un po' spiazzati, ma rimane un ascolto piacevole. Sweetness, strumentalmente, riporta un po' di punk spensierato, ma sono gli ultimi rimasugli mentre le linee vocali sono pop a livelli spudorati tanto da riuscire ad essere inserita nella colonna sonora del gioco NHL 2003. Hear You Me è la ballad immancabile in dischi come questo, dolce e delicata vede il supporto vocale di Rachel Haden bassista jazz che li seguì in tour in quel periodo, dedicata a due sorelle grandi fans della band decedute nel 1997 in un incidente stradale mentre andavano ad un concerto dei Weezer. If You Don’t, Don’t segue un po’ le orme di The Middle ed è effettivamente un pezzo sufficiente, ma non raggiunge minimamente la sua efficacia. Get It Faster è un po' una fregatura: appare teatrale come farebbero, magari, i Panic! At The Disco, sembra voler costruire qualcosa di stimolante, ti aspetti qualcosa di travolgente, ma non arriva mai; il problema, forse, è proprio il fatto che arriva ciò che tutti si aspetterebbero dai <Jimmy Eat World: diventa punk rock da quattro accordi per restare nella propria zona di confort. Cautioners è un altro pezzo intimo e riflessivo, con una bellissima intenzione strumentale in cui il basso sembra voler spingere sull’acceleratore, ma la voce di Adkins riporta Rick Burch nei recinti sperimentali e la riduce a buone melodie emozionali. Chiudono la “liceale” The Authority Song e My Sundown, seconda ballad in chiusura di questi oltre 46 minuti.

Un album che fonda le sue radici nel pop-punk che ha trovato terreno fertile nei primi del 2000 e The Middle ha tentato di equipararsi a brani come Teenage Dirtbag dei Wheatus permettendo loro d’inserirsi tra le band di punta del genere dell’epoca come Blink 182, Sum 41, New Found Glory, Fall Out Boy, Good Charlotte e My Chemical Romance oltre agli indiscussi capostipiti Green Day, reduci dal bellissimo Warning. In Bleed American c’era l’ambizione di raggiungere un pubblico maggiore e dare uno slancio alla formazione attraverso una chiara direzione radiofonica che lo rendono funzionale al raggiungimento degli obiettivi discografici. Molti ascoltatori trovano in questo lavoro l’unica esposizione efficace della band, al di là del fatto che, oltre quelle quattro tracce di punta, ci sia meno carne al fuoco di quanto ci si aspetti. Quelle, però, sono le più ottimiste e, soprattutto, efficaci, per una band che si era posta l’obiettivo di risollevare la propria situazione economica e poter vivere della propria musica. Per i puristi del punk loro sono un rock radiofonico dolorosamente commerciale e insipido; da un certo punto di vista, si fatica a non essere d’accordo. Anche solo un po'. Ma la loro scelta, più che ruffiana, basata sul puro e concreto realismo, è da ritenersi rispettabile. Apprezzato davvero tanto ai tempi della sua uscita, con valutazioni che allora furono decisamente più alte, derivanti dall’essere un album pienamente in target, con molti della generazione di allora che svilupparono un legame intenso con questo lavoro.
Oggi, con un ascolto più approfondito, purtroppo, è da rivalutare in negativo, seppure con un voto ampiamente buono. Forse troppi “Whoa”, troppo liceali, una volta usciti da quell’età. Resta il fatto che a parte l’ottima hit Big Casino di Chaise This Light (2007) in molti li hanno praticamente dimenticati ed abbandonati. Nel caso ci fosse qualcosa d’interessante, la parola al pubblico. Ad ogni modo, se mai vi venisse in mente di ripercorrere le tappe del pop-punk, teen-punk, emo-punk (chiamatelo un po’ come vi pare) quella dei Jimmy Eat World è una di quelle su cui è doveroso fermarsi, quantomeno per quei 4-5 singoli che hanno reso questa band conosciuta in tutto il mondo.



VOTO RECENSORE
70
VOTO LETTORI
75 su 1 voti [ VOTA]
Metal Maniac
Sabato 14 Dicembre 2024, 14.27.02
1
Come sempre, il genere scritto conta relativamente, ma io li ho sempre sentiti catalogare come \"emo\", per punk rock intendo altro... Comunque il singolone omonimo era una hit in quel periodo...
INFORMAZIONI
2001
DreamWorks Records
Punk Rock
Tracklist
1. Bleed American
2. A Praise Chorus
3. The Middle
4. Your House
5. Sweetness
6. Hear You Me
7. If You Don’t, Don’t
8. Get It Faster
9. Cautioners
10. The Authority Song
11. My Sundown
Line Up
Jim Adkins (Voce, Chitarra, Basso, Percussioni, Pianoforte)
Tom Linton (Chitarra, Cori)
Rick Burch (Basso)
Zach Lind (Batteria)

Musicisti ospiti
Rachel Haden (Cori in traccia 6 e 11)
Ariel Rechtshaid (Cori in traccia 8)
Davey vonBohlen (Cori in traccia 2)
 
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