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21/12/24
GORY BLISTER + AYDRA
RCCB INIT, VIA DOMENICO CUCCHIARI 28 - ROMA
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Sprain - The Lamb as Effigy
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13/09/2023
( 1130 letture )
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Ok, mettiamola così: immaginate una grandissima jam session che si tiene in una bettola immersa nella zona industriale di Los Angeles; partecipano alla suonata collettiva i seguenti artisti: Slint, Nick Cave, Throbbing Gristle, Swans, Godspeed You! Black Emperor, Kali Malone, Daughters, Xiu Xiu e Glenn Branca. A dirigere la grande baraonda il Maestro Iannis Xenakis. Avete immaginato le possibilità di una simile commistione? Se sì beh cancellatele immediatamente, perché i qui presenti Sprain si abbattono come un uragano impazzito nei timpani degli ascoltatori partendo dalla lezione dei maestri per poi disintegrarla senza pietà arrivando a presentare un album dal titolo impensabile che potrebbe rivelarsi una vera e propria epifania per chi è alla ricerca di sonorità fuori dal comune.
Un’introduzione decisamente sopra le righe ed entusiastica, vero, ma la musica che questo quartetto losangelino propone nel suo secondo Lp ha davvero qualcosa di notevole e la quantità di influenze ed atmosfere che riesce a creare è considerevole. Nati nel 2018 per volere del polistrumentista e compositore Alex Kent gli Sprain debuttano con un Ep omonimo lo stesso anno mostrando un ventaglio di ispirazioni legate ad una forte matrice slowcore che guarda ora ad un tenero indie rock e un attimo dopo si trasforma in puro noise. Nel mezzo qualche sprazzo post-hardcore e un’attitudine che di fatto si può definire emo. Nel 2020 arriva il primo album intitolato As Lost Through Collision, che prosegue su uno slowcore imprevedibile e parecchio sperimentale ampliando ulteriormente il raggio di influenze. La band non ha un enorme seguito a livello internazionale e sicuramente da questo punto di vista lo stile scelto non aiuta, eppure il tempo necessario per comporre il nuovo album porta innanzitutto all’inserimento in formazione del batterista Clint Dodson e soprattutto ad una ricerca spasmodica per una sperimentazione sonora a tutto tondo, che si lascia quasi totalmente alle spalle ogni residuo slowcore ed emo per giungere ad un sound totalmente privo di compromessi ed estremamente crudo, oscuro e nichilista. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti e porta il titolo di The Lamb as Effigy (or Three Hundred and Fifty XOXOXOS for a Spark Union With My Darling Divine), la cui traduzione lascia comunque aperti numerosi interrogativi sul significato più o meno implicito della frase. I brani sono otto, la durata sfiora pericolosamente i cento minuti. Un vero e proprio Leviatano composto di rumori industriali abrasivi, lunghi sospiri ambient/drone, ritmi e melodie ereditati direttamente dalla (anti)tradizione No Wave e tanto, tantissimo disagio esistenziale espresso attraverso testi perennemente in bilico tra il grottesco e l’orrorifico. Dando un primo sguardo all’artwork del disco si potrebbe fare un parallelo stilistico con il monumentale The Lamb Lies Down on Broadway dei Genesis, non solo per quell’agnello che ritorna nei titoli di entrambi gli album, ma anche per la composizione dell’immagine di copertina; inoltre anche la durata delle due opere è incredibilmente simile, così come la ricerca stilistica delle due band nei rispettivi lavori in studio. Che sia una coincidenza? Il paragone è di certo esagerato, ma non ci sarebbe da sorprendersi se si scoprisse che Alex Kent si fosse ispirato a quel capolavoro prog uscito nel 1974. A dire il vero una grande differenza tra questo disco e The Lamb Lies on Broadway c’è e si palesa subito: se nell’album dei Genesis, contrariamente alla tradizione prog, i brani erano prevalentemente molto brevi, la stessa cosa non si può dire per The Lamb as Effigy dove invece la media si aggira sui dieci minuti per brano con la presenza di due macigni della durata di quasi venticinque minuti. Quindi ecco il primo ostacolo che rende ostica la proposta degli Sprain; il disco è palesemente diviso in due parti, con le due “suite” a chiuderle, ma se nel Lato A troviamo un sound tutto sommato maggiormente legato ad un noise rock colto, nel Lato B il tasso di sperimentazione si alza vertiginosamente e la band mostra di saper utilizzare in maniera intelligente ogni mezzo in suo possesso, silenzio incluso.
Per provare a descrivere meglio un lavoro complesso come questo però possiamo fare un’ulteriore suddivisione dei brani, mettendo da un lato quelli maggiormente legati alla forma canzone e dall’altra quelli invece free-form, che sono anche i più lunghi. Nel primo gruppo spicca senza alcun dubbio l’episodio più breve dell’album, We Think So Ill of You, che nei suoi quattro minuti regala un bignami di noise rock che pesca dagli anni ’70 e giunge sino ai giorni nostri, tessendo un unico filo rosso che va dai DNA di Arto Lindsay sino agli ultimi Gilla Band. I suoni scelti dal gruppo sono crudi quel tanto che basta per risultare vividi e taglienti, ma la produzione di Tim Green (Melvins, Unwound e Cult fra i nomi con cui ha collaborato) riesce a fornire abbastanza spazio sonoro a tutti gli strumenti – e scorrendo la line-up ne potrete leggere molti – per arrivare ad un maelstrom caotico, ma perfettamente intelligibile. Quando Kent urla e la chitarrista Sylvie Simmons suona i riff tutto diventa cadenzato e in linea con il post-hardcore radicale degli anni ’90, ma quando invece viene lasciato spazio al puro rumore si entra in territori più vicini alla musica industriale ante litteram e la sopportazione dell’ascoltare viene messa a dura prova. Il brano comunque ha una certa linearità e sezioni riconoscibili, che sono quelle dove viene espletato tutto l’amore per l’urban-sound newyorkese anni ’70, e dunque si candida a perfetta introduzione per avvicinarsi all’universo degli Sprain, ma essendo Alex Kent uno che non ama i compromessi giustamente questo brano viene messo al penultimo posto della scaletta, come se per arrivare ad ascoltare qualcosa di “rassicurante” bisognasse affrontare un calvario lungo più di un’ora. È invece il basso di April Gerloff a comandare nell’introduttiva Man Proposes, God Disposes, sette minuti di sproloquio poetico di scuola Beat Generation dove non si capisce mai se vi sia un senso compiuto oppure se il frutto del testo sia da ricercare in un fantasioso cut-up. Quel che è certo è che ancora una volta il rumore è protagonista e quando non lo è ci si lascia cullare da sghembi arpeggi post rock che durano il tempo di un respiro, prima di sprofondare nuovamente nei feedback. Sul finale la band ci mostra l’uso consapevole del silenzio, con un momento di stasi di pochi secondi che paradossalmente colpisce più duramente della sfuriata noise che ne consegue e che introduce l’hardcore catramoso di Reiterations. Subentrano in questo caso anche lontanissimi echi grunge per quanto riguarda la performance chitarristica, ma senza mai allontanarsi troppo dagli insegnamenti di Steve Albini. L’ultimo episodio breve in scaletta è Privilege of Being, che inizia con un minuto e mezzo di harsh noise e poi lentamente introduce un organo spettrale che non può non rimandare istintivamente al Michael Gira più ispirato. E d’altronde gli Swans si percepiscono un po’ ovunque in questo disco, anche se in questo specifico caso l’omaggio sembra più esplicito che altrove. L’arrangiamento rimane scarnissimo e mentre l’organo scompare fanno il loro ingresso cinguettii inquietanti ad accompagnare la voce salmodiante di Kent la quale, una volta finito il suo recitare, lascia spazio ad un inaspettato finale orchestrale a base di archi dal sapore decisamente cinematografico.
A questo punto la metà facile dell’album è andata e nei quattro brani rimanenti il quartetto spinge fortissimo sul pedale della sperimentazione, sconvolgendo – e rischiando di far innervosire – chi ha avuto la pazienza di ascoltare sino a questo punto. Partiamo da The Commercial Nude: nel primo minuto un pianoforte schizzato si spande lungo la scena sonora con macchie di colore sparso e poi, dopo qualche attimo di silenzio, un lontano harmonium setta un’atmosfera orientale cupa e misteriosa che prosegue fino al quinto minuto, quando di colpo il brano si apre con forti accordi di chitarra e la voce cambia totalmente timbro. Il risultato è qualcosa di accostabile all’ultimo Nick Cave, ascoltare per credere. Si prosegue così superando la metà del minutaggio con picchi noise/drone dalla forte carica atmosferica e nell’ultima parte Kent recupera il mood serioso per concludere l’esecuzione con una parentesi cantautorale. Dieci minuti in cui si attraversano almeno quattro sensazioni totalmente diverse fra loro, legate però con intelligenza e fluidità. The Reclining Nude segue all’incirca la stessa strada, anche se qui la voce pare ricalcare la schizofrenia di David Thomas dei Pere Ubu, mentre la musica si muove su binari post rock massimalisti, tra i Godspeed You! Black Emperor di Luciferian Towers e gli Swans di The Seer. Fa la sua comparsa ancora una volta il silenzio, qui davvero assordante, e poi diventa protagonista il pianoforte che traghetta il brano sino alla conclusione prima di venire sconquassato da chitarre noise lancinanti. Ma veniamo infine agli elefanti nella stanza, ovvero le due cosiddette suite che chiudono il Lato A e il Lato B dell’album. Margin For Error parte nel migliore dei modi con un angelico drone di organo che non dispiacerà a chi ha apprezzato il recente lavoro di Kali Malone, Stephen O'Malley e Lucy Railton Does Spring Hide Its Joy (una sinfonia per organo, chitarra e violoncello dalla durata spropositata) e quando fa capolino la voce il risultato è sempre delicato ed impalpabile. La tensione aumenta in corrispondenza del nono minuto quando i suoni si fanno elettrici e la voce impazzisce; si potrebbe descrivere questo momento come un ipotetico duetto fra Nick Cave e Kristin Hayter (ex Lingua Ignota), ma il tutto poi prende una piega parecchio grottesca e vicina agli Xiu Xiu di Fabulous Muscles. La voce scompare nuovamente e lascia di nuovo campo libero agli strumenti per una lunga sezione post rock piuttosto massiccia che nel suo avanzare macina con sé numerose influenze, dallo shoegaze al metal, inserendo ora percussioni industriali e synth ambient. Verrebbero in mente gli Isis, se non fosse che tutta la potenza mostrata dalla band viene concentrata solo e sempre su un unico accordo senza mai spostarsi nemmeno di un semitono. È un tour de force allucinante, ma la soddisfazione che lascia una volta terminato è incredibile. E dunque il gran finale, affidato a God, or Whatever You Call It: il faro che muove l’intero brano è da ricercare negli immortali Slint di Spiderland dal momento che chitarra e basso si esprimono esattamente con quel linguaggio. Eppure la parte più interessante va ricercata nell’impiego dei silenzi che fanno assumere al pezzo una dinamica eccezionale, dall’assenza totale di suono fino al più disturbante dei clangori metallici. La batteria compare sporadicamente e quando lo fa non ha alcuna intenzione ritmica, semmai si pone come strumento solista fra altri strumenti solisti per disorientare ulteriormente l’ascoltatore. Dal dodicesimo minuto il silenzio regna sovrano, interrotto solamente da qualche incursione vocale e da sezioni noise martellanti. Più ci si avvicina alla fine più i suoni si slegano da qualunque contesto avvicinandosi un po’ a quanto fatto dai pionieri King Crimson nella seconda parte di uno dei loro capolavori più celebri, Moonchild. Effettivamente in questo frangente gli Sprain rischiano di risultare, oltre che prolissi, anche piuttosto presuntuosi perché il brano alla fine non porta da nessuna parte per almeno una decina di minuti, ma dal momento che è il finale di un disco totalmente fuori dagli schemi si potrebbe anche giustificare una voglia di autorialità estrema in una scelta di questo tipo.
The Lamb as Effigy, lo diciamo subito, non sarà un disco capace di scuotere l’opinione pubblica nemmeno nel proprio campo di competenza. La proposta del quartetto di Los Angeles è folle ed anche se rivela a più riprese le proprie ispirazioni rimane lontana da una facile fruizione anche nei suoi momenti più contenuti. Eppure la qualità è indiscutibilmente elevata e la capacità di scrittura di Alex Kent, così come la sua capacità di padroneggiare numerosi strumenti diversi, è notevole. Il rischio più grande nell’approcciarsi a un album come questo è quello di sottovalutare la sua forza negli ascolti reiterati, così come sarebbe un errore storcere il naso di fronte alle pazzie stilistiche del gruppo che potrebbero essere bollate facilmente come sterili vanità o spocchiosi deliri di onnipotenza non giustificati. Gli Sprain scherzano col fuoco, certo, e si muovono pericolosamente sul filo del rasoio, ma nel loro secondo disco sanno perfettamente quello che fanno ed hanno tutti i mezzi per continuare a farlo e probabilmente farlo anche meglio. Probabilmente non avrete letto il nome della band o dell’album in giro, ma se vi ritenete pronti ad affrontare quasi cento minuti di rumore bianco, droni celestiali e testi ermetici da approfondire ascolto dopo ascolto, beh questo potrebbe addirittura essere il vostro disco dell’anno.
Empathy blooms Your moral gymnastics And lack of concern for all the drama Embedded between your legs We will be kept forevermore.
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6
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Recensione precisa ed esaustiva come sempre. Uno dei migliori album dell\'anno senza ombra di dubbio. Un caos che sintetizza tutte le influenze dei signori citati al primo paragrafo in maniera naturale e senza mai essere dispersivo. Altro che quello sgorbio senza capo e coda che hanno fatto gli Avenged Sevenfold. |
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5
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Innanzi tutto credo che io abbia esordito rendendo merito al lavoro svolto da tutti voi.
Se ho parlato di porcheria in primis perche’ ho avuto modo di ascoltarlo e in “secundis” perche’ onestamente e’ una porcheria.
Non basta mettere insieme 70 strumenti (anche fuori dall’ordinario) per gridare al capolavoro o al miracolo! Secondo il mio punto di vista questo disco e’ una presa per il culo poi …de gustibus!!
Sicuramente i miei euro restano in tasca!! |
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4
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Ne sto sentendo parlare moltissimo ma non ho ancora avuto modo di ascoltarlo, riguardo alla recensione un semplice grazie perchè articoli così ben scritti e completi sono una rarità. |
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3
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@MPS Con il tuo commento mi daresti il via libera per una riflessione più ampia, ma forse il posto giusto dove condurla sarebbe sul forum.
Ad ogni modo mi dispiace della tua stizza, che mi fa domandare innanzitutto se il disco in questione tu lo abbia ascoltato e in secondo luogo se il tuo riferimento alla \"tanta musica da recensire\" è legato ad un genere diverso da quello qui trattato. Lo chiedo semplicemente perché forse avrai visto che io sul sito mi occupo di trattare musica \"alternative\" a 360 gradi, inclusi generi come noise e drone, che infatti vedi prevalentemente recensiti da me, anche perché sono alcuni fra i generi musicali con cui ho maggior dimestichezza. Dalla mia penna non ti potrai aspettare recensioni su dischi heavy o hard rock ad esempio, semplicemente perché non li tratto io. Comunque mi piacerebbe sapere quali sono i motivi per cui definisci questo album \"porcheria\", sarebbe interessante conoscerli per capire se, magari, ho cannato in toto questa recensione. Peccherò di poca modestia, ma non penso che sia così e ci sono cinque paragrafi di articolo dove giustifico il mio voto positivo (tra l\'altro inferiore a quello dato da molte altre webzine di settore, ma tant\'è). Comunque parliamone se ti - e vi - va, d\'altronde questo spazio serve anche e soprattutto a questo. |
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2
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@MPS: giusto il messaggio, sbagliato il tono e il modo. |
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1
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Apprezzo il lavoro che viene fatto da tutti voi, ci mancherebbe, pero’ non scriviamo buffonate !! non scherziamo, c’e’ talmente tanta musica da recensire e invece perdete tempo con questa porcheria che oltre tutto fate passare per capolavoro!!! PER FAVORE!!!! |
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Man Proposes, God Disposes 2. Reiterations 3. Privilege of Being 4. Margin For Error 5. The Commercial Nude 6. The Reclining Nude 7. We Think So Ill of You 8. God, or Whatever You Call It
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Line Up
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Alex Kent (Voce, Chitarra, Dulcimer martellato, Autoharp, Banjo, Mandolino, Pianoforte, Organo, Glockenspiel, Synth, Harmonium, Sega, Chimes, Fisarmonica, Gong, Registratore, Campane, Rumori) Sylvie Simmons (Chitarra, Bugle, Registratore, Campane) April Gerloff (Basso, Synth, Campane) Clint Dodson (Batteria, Synth, Vibrafono, Campane)
Musicisti Ospiti: Ulrich Krieger (Sassofono, Clarinetto contrabbasso) Máté Tulipán (Sassofono) Eric Poulin (Corno francese) Kyle Bates (Synth) Jayla Tang (Violino) Kris Rahamad (Violino) Joy Yi Saba (Viola) Tal Katz (Violoncello)
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