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27/12/24
FAST ANIMALS AND SLOW KIDS
CASA DELLA MUSICA – NAPOLI
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26/08/2023
( 672 letture )
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Delicious deliverance Brilliant breathing For you, for everyone Sensational sound source Miracolous maracas For you Climate to climax Sustain Earth Superb birth
È veramente difficile non farsi prendere dallo scoramento parlando di una band come gli svedesi Ritual e constatando quanto sia distante il riconoscimento da loro raggiunto nel tempo, rispetto al loro valore di compositori e musicisti. È un qualcosa che non si può colmare, purtroppo e rende complesso dare merito ai loro album, quando la musica in realtà parlerebbe da sola. Formati nel 1992 e giunti al debutto nel 1995 grazie agli uffici della storica label Musea, i Ritual sono (stati?) senz’altro tra i gruppi prog rock europei di maggior spessore e livello, con la sola colpa di aver scelto la via più impervia. Anzitutto, lontano dal prog metal dell’epoca e vicino piuttosto al prog rock settantiano, con riferimenti ben precisi sia nella scena nazionale (Kaipa, Flower Kings e gli amici Anekdoten), sia in quella internazionale, Jethro Tull, Gentle Giant e Kansas i primi a venire in mente. Eppure, con una vena moderna e sperimentale che tanti retro rockers non hanno e non vogliono avere. Insomma, degli “outcast”, dei perenni fuori posto, non inquadrabili per scelta, al punto che i pur discreti riscontri per il debutto, che li porterà a un esteso tour europeo, si spensero presto, lasciandoli senza contratto e costretti a pubblicare in autonomia il secondo disco, Superb Birth, nel 1999. Un disco controverso, che può forse essere addirittura additato come causa del loro crollo discografico. Il classico “mezzo passo falso” che arriva nel momento meno adatto. Forse. O forse no.
Quattro anni sono tanti per pubblicare un secondo disco dopo un debutto ma, colpa ancora più grave, oltre al fatto di essere praticamente introvabile a causa della totale mancanza di distribuzione, fu che i Ritual coraggiosamente decisero di staccarsi dall’impronta del primo album e scrivere musica sempre molto riconoscibile e personale (forse, anzi, fin troppo), ma dal mood e dall’ispirazione molto diversi. Dove nel primo trionfava un’atmosfera fiabesca, gioiosa -pur con qualche inflessione misteriosa e oscura- e senza tempo, esaltata da una componente folk che dominava su quasi tutti i brani, con testi all’insegna del potere della Natura e ispirati alla serie di novelle di Tove Jansson, con protagonisti i piccoli troll chiamati Moomin, in Superb Birth si respira tutt’altra aria. Difficile capire cosa sia scattato nell’ispirazione della band, ma il secondo disco è decisamente più tagliente, duro, nervoso, quasi amaro e pur senza rinunciare in toto all’uso di strumentazione folk e a momenti puramente acustici, la proporzione rispetto a Ritual è ribaltata e qua sono molto di più gli episodi in distorsione o comunque “aggressivi”. I brani sembrano molto più diretti e, al contempo, difficili da penetrare al primo ascolto, quasi ostili, anzi. Qualcuno direbbe “involuti”, ma forse il problema è culturale, più che musicale. In realtà, i quattro ricercano una originalità e una loro via anche in questo disco e lo fanno forse in maniera ancora più esplicita, pagandone le conseguenze, in termini di facilità di approccio. Anche l’eterogeneità della proposta fa il suo ed è difficile trovare un filo conduttore nel disco, tanto diversi appaiono i brani tra loro. Insomma, anche quell’equilibrio stilistico che aveva caratterizzato il primo disco sembra venir meno e confondere l’ascoltatore. Ma sono dunque impazziti, questi ragazzi? Possibile che l’unico punto di contatto siano la voce dello stupendo Patrik Lundström, quella sì immediatamente riconoscibile e l’incontestabile perizia strumentale dei quattro? Per certi versi è così davvero e Superb Birth non è un disco facile, resta ostico e in parte indecifrabile anche dopo tanti ascolti. Ma come sempre accade, sono le lenti che utilizziamo a restituire un’immagine diversa, più che il soggetto in sé. Certo chi ricerca le sonorità del primo album farà molta fatica a trovarle, se non per episodi, quelli acustici in particolare, ma un brano se vogliamo semplice e molto moderno come Do You Wanna See the Sun non può che essere una buona introduzione al disco. Ottimo lavoro di Fredrik Lindqvist, il quale si prende il suo spazio anche nella successiva Lobby, nella quale tornano anche gli strumenti acustici, le parti folk, le armonie vocali e una bella melodia portante, su un arrangiamento ricchissimo, che conferma la vena prog peculiare del gruppo. Atmosfere acustiche e folk che sono invece protagoniste in Sadly Unspoken, con un giro portante che ricorda i Led Zeppelin, sempre però mantenendo un’atmosfera quasi tesa e nervosa, che letteralmente esplode nell’amarissima Did I Go Wrong; brano prog oscuro e lunatico e ancora una volta condotto da basso e batteria, sui quali hammond e voce costruiscono un crescendo faticoso, che liricamente sa di autoanalisi e latente pazzia, non a caso sottolineata dal giro “orientaleggiante” del refrain. Piccolo capolavoro è invece 6/8 che tiene naturalmente fede al proprio titolo, con un andamento ondeggiante e danzereccio e viene introdotta e seguita da un trio di archi, mentre tutti gli altri strumenti fanno il loro ingresso poco dopo. Brano spettacolare, quasi tzigano, nei suoi tre minuti scarsi. Più ariosa delle precedenti, Coming Home è un brano con un arrangiamento ricchissimo, ancora una volta orientaleggiante e stratificato, con una melodia per una volta aperta e un bel refrain accompagnato dai cori. Una parentesi solare che il gruppo prosegue con Into the Heat, riff portante di chitarra e Lundström protagonista centrale del brano, con i consueti arrangiamenti ricchi di sottofondo, per un brano all’apparenza lineare quanto riuscito. Really Something si affida a un ritmo in levare pesante e distorto, che torna in battere per il bridge e che apre a un bellissimo refrain sognante, per poi concedersi un break centrale rumorista e sperimentale. Mothersong è una delle chiavi portanti del disco, tra distorsione, ancora contaminazioni orientali e un ritmo travolgente, sul quale Lundström sfodera tutte le proprie armi. Anche in questo caso vengono in mente i Led Zeppelin e forse il paragone non è poi così lontano, pur trovandoci in territorio prog. Dopo tre brani mediamente più aggressivi è tempo di tornare alle atmosfere acustiche e Golden Angel è forse il brano più dolce del disco, rivelandosi un piccolo gioiello, che conferma l’assoluta qualità della band su questo tipo di composizione, affatto “molle” e anzi carica di ritmo. Dinosaur Spaceship è senza dubbio il brano più complesso del disco, oltre a essere il più lungo ed è un po’ la sintesi di tutto Superb Birth. Un prog rock nervoso e moderno, con un gran lavoro strumentale e prestazioni significative da parte di tutta la band, con però la sensazione che manchi qualcosa, nonostante e forse proprio a causa della ricchezza di sensazioni e momenti diversi evocati nel corso della durata. Come appunto latitasse una direzione chiara e il brano, pur godibilissimo e divertente, non riuscisse mai a trovare una definizione completa. Pura goduria strumentale, con un finalone da urlo, come confermato dall’esaltante versione dal vivo contenuta in Ritual Live. Chiude il disco A Voice of Divinity, brano d’atmosfera, per piano e voce, con il ritornante invito alla salvezza della Natura e al recupero della saggezza dell’equilibrio che aveva caratterizzato il primo disco.
Preso brano per brano, con qualche momento un po’ più convulso e qualcuno più disteso, Superb Birth è un gran bel disco, a patto di dargli fiducia: troppo alta la qualità strumentale e troppo interessanti gli arrangiamenti creati e la bella voce di Lundström. Nel complesso, l’album resta ostico e fin troppo eterogeneo. Per quanto sempre difficile interpretare la volontà compositiva e artistica di un gruppo, è chiaro in questo caso che gli svedesi abbiano voluto affrancarsi da una scelta stilistica forte come quella espressa nel primo disco, tentando una strada ancora più personale e perdendo, quindi, una direzione chiara, col conseguente disorientamento tanto della critica quanto del pubblico, che affossò subito l’uscita. Peraltro, come detto, l’album risultò quasi impossibile da reperire e solo nel 2004, grazie al sopraggiunto accordo con la Tempus Fugit / SPV, sarà possibile accedere alla ristampa dei primi due dischi, oltre a ritrovare i Ritual con un nuovo lavoro, Think Like a Mountain, nuovo capitolo e nuova trasformazione di una band incapace di adagiarsi sugli allori. A questi seguirà Ritual Live, in quello che fu il momento più felice della band. Purtroppo, però, il treno era passato e per loro non sarà più possibile andare oltre una piccola nicchia di aficionados, come confermato dal pur bellissimo The Hemulic Voluntary Band del 2007, al quale seguirà l’ibernazione della band per quindici anni, in attesa che il promesso doppio album del ritorno veda la luce, dopo l’anticipo dell’EP del 2020. Caduto, naturalmente, nel silenzio più totale. Non è un capolavoro Superb Birth, questo è chiaro. Eppure, è un ottimo album, se preso per le canzoni in esso contenuto, scritto da una band dal talento cristallino e dalle qualità altissime. Come detto in apertura, risulta davvero difficile concepire quanto poco abbiano raccolto nella loro carriera. Fatevi un favore, riscopriteli e tornate sui loro dischi, non ve ne pentirete.
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INFORMAZIONI |
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Tracklist
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1. Do You Want To See the Sun 2. Lobby 3. Sadly Unspoken 4. Did I Go Wrong 5. 6/8 6. Coming Home 7. Into the Heat 8. Really Something 9. Mothersong 10. Golden Angel 11. Dinosaur Spaceship 12. A Voice of Divinity
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Line Up
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Patrik Lundström (Voce, Chitarra) Jon Gamble (Tastiere, Cori) Fredrik Lindqvist (Basso, Chitarra, Bouzouki, Dulcimer, Cori) Johan Nordgren (Batteria, Percussioni, Cori)
Musicisti Ospiti: Mats “Gaffa” Karlsson (Lap Steel su traccia 5) Christian Sahlin (Violoncello su traccia 5) Lovisa Hallstedt (Violino, Viola su traccia 5)
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